Iacobelli, 2010 Finalista del libro dell’anno 2011 di Fahrenheit Il testo originale francese di questo romanzo è uscito nel 1992 col titolo «Un Homme tragique». Traduzione di Alessandra Quattrocchi Per ordinare il libro vai al sito www.iacobellisrl.it Libro del mese di Fahrenheit (RAI 3) per marzo 2011. Intervista del 14 marzo 2011 con Loredana Lipperini
La trappola dell’amore paterno
di Maria Vittoria Vittori
Leggendaria luglio 2010
Di libri dedicati al rapporto madre e figlia ce ne sono tanti, ma latitano quelli incentrati sui vincoli altrettanto complicati che uniscono una figlia al padre. Quanto possa essere insidiosa la trappola dell’amore paterno lo racconta Silvia Ricci Lempen inUna famiglia perfetta, che ha una storia particolare alle spalle. L’autrice, docente universitaria e responsabile del mensile femminista Femmes Suisses (oggi diventatoL’Emilie) è nata in Italia nel 1951 ma trasferitasi nella Svizzera romanda fin dal 1975, scrive in francese e questo suo romanzo di straordinario impatto uscito nel 1991 con il titolo Un homme tragique è arrivato solo ora qui da noi grazie alla casa editrice Iacobelli. La sua stesura inizia nel dicembre 1985 : il padre è morto da poco più di un anno e sua figlia, che è la voce narrante, ha da subito avvertito con inquietudine la qualità particolare del suo lutto che consiste nel guarire non da una morte, bensì da una vita. E allora, non c’è che la scrittura per provare ad elaborare un lutto così anomalo, un lungo lavoro di scrittura che srotola il tempo di più vite – non solo quella paterna, ma anche quella della madre, del fratello, la sua stessa vita _ in sequenze dal flusso discontinuo, raramente disteso, talvolta pungentemente rifessivo, più spesso lacerato dalla spinta di pensieri e sentimenti contrastanti. Singoli episodi risalgono dal passato, con estrema nitidezza – quella vigilia di Natale del 1966 offuscata dalla collera paterna – ; atmosfere ambigue, allusive, ansie taciute, piccole ripetute menzogne si alleano a frantumare il quadro di una famiglia che nella feroce volontà del fondatore doveva essere perfetta. Ciò che gradualmente prende forma in questa storia è un ambizioso, estremo tentativo di compensazione, che non investe solo le più intime dinamiche dei rapporti familiari ma anche i più scoperti meccanismi dei rapporti sociali. Il padre, di umile famiglia, che aveva lottato per sutdiare e per affermarsi, era stato un oppositore del fascismo e amico fin dagli anni universitari di Pilo Albertelli, il professore partigiano e martire delle Fosse Ardeatine ; anche lui era entrato nelle formazioni partigiane partecipando alla Resistenza. Condivideva con altri il progetto di un mondo più libero e più giusto : ma le scorie del fallimento di quel progetto lo hanno trasformato in un uomo diverso, solitario e disilluso. «Di quelle acide scorie – scrive la figlia a tanti anni di distanza – hai fatto il nostro veleno quoitidiano». Perché la famiglia che lui si era deciso a fondare già avanti negli anni e con una donna tanto più giovane di lui e ancora entusiasta della vita, doveva essere diversa da tutte le altre : un nucleo di esseri umani che non conoscono la reticenza, la menzogna, il lassismo, abituati a prendere come riferimento le stelle kantiane della legge morale. Un progetto di perfezione totalitaria, il suo, che di fatto strangola nella culla ogni tentativo di libertà e paradossalmente incentiva la menzogna, unico modo concreto per placare queste smisurate aspettative. Con un linguaggio decantato dalla sofferenza e dunque di estrema limpidezza intellettuale ed emotiva, Silvia Ricci Lempen viene a ricordarci che accanto al terrorismo sociale e politico dei gruppi eversivi – e c’è il preciso riferimento alle Brigate Rosse – ce n’è un altro psicologico, meno visibile ma non meno pericoloso, che si autoassolve per il fatto di essere mosso dall’amore. Un terrorismo a bassa intensità, occultato nelle pieghe della vita quotidiana, che rende vittime proprio le persone più care, infiltrando nella loro interiorità ordigni esplosivi a scoppio ritardato.
Se la perfezione nasconde la tragedia
di Pier Mario Fasanotti
Liberal, 10 luglio 2010
Il titolo originale è Un homme tragique.Quello proposto dall’editore Jacobelli èUna famiglia perfetta. In questo aggettivo c’è un carico insopportabile di dolore e di ironia : la «perfezione», inseguita come paravento esistenziale, diventa «tragedia»: per se stessi e per i familiari. L’uomo in questione è il padre dell’autrice, Silvia Ricci Lempen, romana di nascita, ma ormai svizzera di adozione e narratrice in lingua francese. Il suo è uno dei tanti testi importanti, e a volte dimenticati, del Novecento che l’editore laziale recupera e ripropone al pubblico, in quanto chiavi di lettura di una certa realtà sociale e familiare. Un romanzo dalle marcate e sincere tinte autobiografiche, che tuttavia si eleva dalla singolarità quotidiana per diventare arazzo rappresentante epoche che si succedono, a partire dalla prima guerra mondiale fino al disordinato ed esaltante periodo della contestazione giovanile. L’autrice ripercorre le tappe, tutte dolorose, della sua esistenza (e non solo la sua) per approdare a quel che c’è di meglio nelle battaglie femministe: il recupero del sé, la libertà come gioia responsabile, il coraggio sereno dell’autonomia.
L’homme tragique è una persona che ha una tale ossessione della razionalità da arrivare a essere dittatore con se stesso e con i familiari. I guasti causati nella psiche dei figli sono inimmaginabili. Silvia Ricci Lempen cammina a ritroso nella storia e ricorda la figura del nonno materno, costretto a indossare la divisa fascista e ad assistere a tutte le barbarie inflitte sugli individui, colpevoli proprio perché individui. Famiglia e nazione procedono a braccetto: il declino fisico del padre coincide con quello dell’Italia, un paese che danza sulla deriva, «giullare grottesco dell’Europa».
Un episodio, apparentemente marginale, illumina il carattere del padre che da vittima della storia (tornò dalla campagna d’Albania coi nervi e il fisico a pezzi) diventa carnefice. Un giorno scompare il cane.Dopo attese e affanni, un contadino lo riporta a casa. E lui non ha alcuna reazione. È come se avessero per sbaglio suonato alla porta. Assenza di emozioni, o meglio paura di farle affiorare, di sondarle, di convivere con esse. Il risultato è la dittatura di stampo niciano sui familiari. Non a caso l’autrice cita spesso il filosofo nichilista: «In realtà, amici miei, io mi aggiro in mezzo agli uomini, come in mezzo a frammenti e membra degli uomini! E questo è spaventoso ai miei occhi: trovare l’uomo in frantumi e sparpagliato come su un campo di battaglia e di macello».
Ma il padre di Silvia pare non accorgersi di camminare su un’umanità in frantumi, semmai vuole ricomporre in ogni istante i brandelli di un massacro per far ordine in un casellario che è soltanto immaginario – quindi dispotico – e imposto dalla paura di deragliare, di sbandare, di saggiare altri percorsi. Ovviamente il Sessantotto è, per lui, in primis, sbandamento, ceffone criminale al volto dell’ordine costituito. L’autrice si confronta con Nietzsche negli anni universitari, contraddice il docente, si sofferma su un passo di Volontà di potenza, laddove si afferma che è normale che l’uomo, di tutti gli animali, sia il solo a saper ridere, perché è il solo che soffre abbastanza da aver dovuto inventare l’allegria.
Una famiglia perfetta
di Gianfranco Franchi
Lankelot, luglio 2010
(…)Cos’è “Un uomo tragico”? È un romanzo famigliare concentrato sull’interpretazione e sulla trasfigurazione del sofferto e contrastato rapporto tra la narratrice e suo padre; una notturna, articolata e complessa elaborazione d’un lutto che sembra stratificato. Non è soltanto la sofferenza per la perdita del padre, è – in un certo senso – la nostalgia per l’Italia conosciuta e perduta, per l’Italia che poteva essere e non è mai stata, rovinata dalla corruzione e dall’arroganza, dalla superficialità e dall’incoscienza politica (…)
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Silvia Ricci Lempen e il dilemma dell’originale
di Roberta Deambrosi
Culturactif, novembre 2010
Silvia Ricci Lempen, lei è una scrittrice di origine italiana, cresciuta a Roma, dove ha frequentato le scuole francesi, da anni vive e lavora in Svizzera romanda come giornalista e docente universitaria e partecipa alla vita politico-culturale della regione. Ha pubblicato romanzi e racconti in francese. Una famiglia perfetta è il titolo del suo primo romanzo tradotto in italiano, scritto e pubblicato quasi vent’anni fa in francese con il titolo Un homme tragique .
Dal punto di vista linguistico il libro testimonia di un percorso di scelta della lingua che può apparire intricato. Infatti lei narra fatti autobiografici situati in un contesto prevalentemente italiano, facendo però uso del francese. Per la versione in italiano ha invece scelto di ricorrere al lavoro di una traduttrice, Alessandra Quattrocchi.
Ci può spiegare alcune delle ragioni di un percorso non comune, che a prima vista fa intuire una crescita, una personalissima appropriazione e elaborazione dell’uso di una lingua in quanto strumento letterario? Che ruolo ha avuto in tutto ciò la lunga “pausa” – i quasi vent’anni tra l’edizione francese e quella italiana – durante la quale ha affidato il suo scritto ad un’altra persona? Era un bisogno di presa di distanza dai fatti, dal libro, un modo per rileggere la sua storia, oppure un modo per riappropriarsi dell’italiano in quanto lingua del raccontare? O nulla di tutto ciò?
Avendo fatto il mio percorso scolastico in una scuola francese a Roma, sono cresciuta nel bilinguismo. Il francese è sempre stato per me la lingua del sapere, dell’intelletto, della socializzazione culturale. L’italiano, parlato in casa, era la lingua degli affetti, ma anche della sofferenza, vista la mia infanzia, come racconto appunto nel libro, non facile. Poi a 21 anni mi sono trasferita in Francia, a 24 mi sono stabilita nella Svizzera romanda, e dunque la mia vita d’adulta l’ho vissuta in ambiente francofono. Il mio tragitto letterario doveva cominciare con un libro su mio padre. Ho aspettato che lui morisse per cominciare a scriverlo. Quando mi ci sono trovata immersa, la questione linguistica non si è nemmeno posta: vivevo nel francese, la scelta era dunque ovvia. Però c’era anche un’altra ragione, all’inizio forse inconscia: l’uso del francese costituiva un primo e più immediato strumento per costruire la distanza letteraria. Contrariamente ad altri scrittori immigrati che “adottano” la lingua d’accoglienza, per me il francese era quasi come una prima lingua, quella nella quale riflettevo, scrivevo anche senza intento di pubblicazione. Una lingua dunque per me vecchissima, che padroneggiavo, e che si è rivelata in questo frangente strumento ideale per reinventare degli eventi che non avevo affatto vissuto in francese.
(…)
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Intervista sulla Radio della Svizzera italiana
Il Punto, Rete Due, incontro di Maria-Grazia Rabiolo con Silvia Ricci Lempen a proposito del suo libro Una famiglia perfetta, 23 dicembre 2010.
Presentazione degli editori
Il romanzo si presenta come un urlo di ribellione contro un padre assetato d’assoluto che con il suo amore avvelena la vita dei suoi cari. Questo padre frustrante, motore della storia familiare, è elevato a “uomo tragico” per eccellenza, e la sua storia diventa un destino, una prospettiva che coinvolge i personaggi della storia. L’autrice non si accontenta di dipingere rigidamente la figura di questo padre, ma si sforza di spiegare e giustificare tale atteggiamento all’interno di un periodo storico, quello del fascismo e della fine del ’900. L’opera non è quindi solo una testimonianza personale, ma è più in generale uno sguardo sulla nostra società: la messa in parallelo del terrorismo privato di un padre e di quello pubblico delle Brigate Rosse è un buon esempio del rincorrersi tra individuo e collettività: in entrambi i casi, la sete d’assoluto muta in paranoia mortifera.
Estratto dalla prefazione
(…) Una famiglia perfetta è prima di tutto una riflessione sulla vita e sulla morte, sulla caducità e sulla finitezza di tutte le cose; è però anche una riflessione sull’amore e sulle conseguenze dell’amore; sulla volontà e sulla violenza (sia pubblica che privata); sull’identità; sul valore terapeutico della scrittura; sulla letteratura ed in particolare su cosa costituisca la letteratura; sul rapporto tra micro e macro storia; ma è anche un quadro disincantato della situazione storico-politica italiana dagli anni ’20 agli anni ’80 del secolo scorso e, per finire, un atto d’amore nei confronti di un uomo, il padre, colto in tutta la sua complessità e tragicità (non a caso il titolo originale del romanzo è Un homme tragique).(…)
Laura Rorato, Bangor University, marzo 2010